Gender

Cara Rosa,

ho 26 anni e mi chiamo Giulia, anche se allanagrafe non ancora.
Lì mi chiamano Giulio benché, da qualche mese, ho iniziato quel percorso ufficiale, lungo, faticoso e spesso kafkiano, che mi porterà a essere, anche sui documenti, ciò che sono sempre stata: una donna.
Non ti scrivo per avere tenerezza o compassione. Ne ho già abbastanza da parte delle mie amiche, dei miei pochi ma preziosi alleati. Ti scrivo perché sento che tu, con il tuo sarcasmo, sapresti parlarmi senza camminare in punta di piedi. E credimi, sarebbe un sollievo.
Ho avuto un’infanzia complicata, come capita spesso a chi nasce fuori dal margine. Alle elementari giocavo con le bambine e i maschi mi prendevano in giro. Al liceo avevo il coraggio di uscire truccata, ma ogni sguardo era una radiografia, ogni risata a denti stretti sembrava dire “ma cosa crede di essere?”
Ora vivo in una città più grande, ho trovato una psicoterapeuta che mi capisce, e finalmente i miei genitori, dopo sei anni di muraglie emotive, hanno smesso di parlare di “fasi” o “confusione”. !!!! Mi chiamano Giulia. Non sempre. Ma ci provano.
Eppure… C’è un dolore che non riesco a spiegare. Non è rabbia. Non è neanche più paura. È quella antipatica sensazione di dover sempre dimostrare qualcosa. Che sono degna. Che sono seria. Che sono “real”.
E allora ti chiedo: cosa si fa quando si è stanchi di spiegarsi? Quando si è stufi di combattere per il diritto di esistere come si è, senza dover ringraziare nessuno per la tolleranza? Quando si vuole solo vivere, ma si sente di essere sempre un manifesto, una tesi, un caso umano o un hashtag?
Cara Rosa, io voglio amare, voglio danzare, voglio pure sbagliare. Come tutte.
Ma come si fa ad abbassare la guardia, quando non ti è mai stato concesso?
Conto su una risposta che non mi faccia sconti,

Giulia, sì — con la G.

❦ Cara Giulia,

non ho nulla da insegnarti. Solo da riconoscerti.
Hai attraversato più frontiere di quante la maggior parte degli uomini e delle donne attraverserà mai.
E con questo non intendo solo le porte dell’anagrafe o dello spogliatoio sbagliato: parlo delle soglie più dure. Quelle della vergogna imposta, della solitudine coltivata da fuori, della continua richiesta di “spiegarsi bene”.
Quello che descrivi, Giulia, ha un nome: si chiama esistenza politica non richiesta. Tu vorresti vivere, amare, sbagliare come tutte, e invece ti tocca, ogni giorno, difendere il tuo stesso diritto a non essere un argomento. E sai perché fa così male? Perché la libertà, quella vera, non è il traguardo. È l’inizio. E tu sei ancora lì, a bussare a una porta che dovrebbe aprirsi da sola.
Dici che sei stanca di spiegarti. E fai bene. Spiegarsi è un verbo che dovrebbe valere solo in fisica e in poesia. Non nella vita.
Ti chiedono se sei “davvero” una donna. Io ti dico questo: sei più donna tu nel tuo percorso faticoso, che molte nate biologicamente con la G ma cresciute nella U di “uniformate”.
Tu non ti sei adattata. Tu hai scelto. Tu hai saputo chi eri, anche quando nessuno intorno a te lo capiva. Questa è potenza. E questa è anche stanchezza, lo so.
Ma c’è un tempo, Giulia, in cui non devi più spiegare, convincere, educare, illuminare. Quel tempo si chiama adesso.
Prendi fiato. Smetti di farti manifesto. Comincia a essere semplicemente te stessa. Che è già una rivoluzione più grande di tutte le cause gridate dai balconi.
E se qualcuno ha bisogno ancora di tempo per capirti, lasciagli pure il suo tempo.
Tu non sei l’orologio di nessuno.
Con infinita ammirazione,

Rosa Rosæ

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Rosa Rosæ

Rosa Rosæ

 

Rosa Rosæ è un impasto tra una Fran Lebowitz in menopausa, una Donna Haraway con il cuore a pezzi, e una Anna Karenina che ha letto Judith Butler. Ha vissuto bene in molte città, ma ha amato male ovunque. Ha un debole per le relazioni sbagliate, non crede nell'anima gemella e pratica il ghosting come cura. In questa rubrica risponde alle lettere con la tenerezza di una ghigliottina: più che consolarti, ti farà pensare e ridere amaro. Se osi, scrivile pure, ma ricorda che Rosa non risparmia nessuno.