Cara Rosa,
Vivo una vita abbastanza normale. Anzi vivevo una vita abbastanza normale.
Sposata da 22 anni con un mio coetaneo, un figlio di 20 anni che studia in un’altra città. E basta.
Mi sembra di non avere altro da raccontare della mia vita. Mio marito fa un lavoro che lo costringe a stare lontano da casa per lunghi periodi. Entrambi figli unici, abbiamo scelto insieme la nostra routine familiare: una piccola città, io a casa a prendermi cura delle mura e della prole, lui a procacciare il denaro per una vita agiata.
Tutto digeribile e digerito fino a che nostro figlio non si è trasferito in un’altra città per studiare.
E come se mi fossi sentita senza più una ragione d’esistere o d’essere. Anche quelle che pensavo essere le mie amiche, in realtà erano le mamme dei compagni di scuola di mio figlio.
Così ho cominciato, tra il serio e il faceto, a navigare tra le dating app. Ne ho esplorate diverse, da Tinder a Hinge, da Bumble a Badoo. Era faceto ed è diventato serio. Nel senso che quando sento il bisogno di compagnia vado a cercarla lì.
Alcune volte li ho fisicamente incontrati: fuori città, una sera o due; qualche volte mi è capitato di andarci anche a letto. Quando torno a casa provo abbastanza schifo per questa situazione e soprattutto per me stessa.
Dovrei andare oltre, fare la cosa giusta, fare una scelta definitiva in una direzione o in un’altra, ma non ho il coraggio.
Soprattutto, ora che potrei, mi chiedo, perché non ho chiesto a mio marito di portarmi con lui? Perché ho tanta paura di fargli questa richiesta?
Anonima
Ora, mentre ascoltiamo il legno scoppiettare nel camino, dovete sapere, cari bambini, che per quanto i vecchi dicano che i social di oggi siano un catino dell’essenza peggiore dell’essere umano, Usenet poteva essere… anche peggio!
citazione da miamammausalinux.org
Vero. Ma sui social prima dei social, sui Newsgroup di Usenet, si potevano anche trovare cose così…
Cara Rosa,
sto per andare in pensione. Ancora un mese e poi finalmente libero: questo è quello che mi ripetono tutti quasi fosse un mantra, “finalmente libero”. E allora io ho cominciato a riflettere su questa mia “libertà”.
Un disastro: perché dopo quarantadue anni di lavoro (sempre lo stesso), quaranta di matrimonio (sempre con la stessa donna), tre figli, una decina di cari amici tali da quando ho memoria di esistere, io non mi sento affatto “libero” al pensiero di non andare al lavoro.
Esattamente il contrario. Hai presente quella canzone che fa “ma io lavoro, per non stare con te”?
Ecco, quello sono io: mi sto rendendo conto di avere approfittato del tempo del lavoro per non essere costretto a dedicare tempo alla famiglia, agli amici, agli hobby (di chi?).
È terribile quello che sto scrivendo, è terribile che abbia maturato questa consapevolezza.
E dico: voglio lavorare! E se non posso lavorare, fatemi vivere! Fatemi vivere in pace! Fatemi viaggiare! Fatemi andare a donne, con tutte le donne che mi vorranno, con tutte le donne che vorranno starmi accanto senza legami e senza prospettive ……
E non voglio sentirmi una brutta persona per questo.
Mi dispiace per la mia famiglia e per i miei amici, perché forse non sono stato leale con loro in tutti questi anni, ma solo ora mi rendo conto della mia simulazione.
Ora però voglio davvero sentirmi libero, Rosa, libero!
Giovanni, 64 anni, Genova
Ciao Rosa,
lo so che magari non sono proprio il tuo target, ma ti ho beccata per caso e da lì ho iniziato a leggerti tipo ossessione leggera.
Hai una vibe giusta, tipo quella zia col cervello acceso che non ha paura di dire la verità, anche se fa male. Ed è proprio quello che mi serve: una verità adulta che non venga da qualcuno che mi ha visto in pannolino.
Situazione. In palestra è arrivato uno wow. Bello forte. Ma proprio mi fa venire fame (sì, quel tipo di fame). Si chiama Daniel. Gentile, simpatico, quattro anni più di me, studia Giurisprudenza, testa a posto. Mi ha chiesto di uscire. Tre volte. Bowling, pizza, mare, cinema, gelato, disco — tutto molto carino, tranquillo, easy. Ci siamo baciati. Bello, bello, bello.
E io sono tipo: “ok, io vorrei che questa cosa succedesse, cioè che andasse avanti”.
Ma ho paura.
Perché Daniel è nero. È stato adottato quando aveva tre anni da una coppia italiana, quindi sì, è italianissimo. Ma la sua pelle è nera. E io, che vengo da una famiglia operaia, super dignitosa, gente che si è fatta il mazzo per noi figli, so già che impazzirebbero. Cioè: la loro unica figlia femmina che sta con uno “che sembra straniero” (lo direbbero così, con quella faccia lì).
E i miei fratelli? Peggio. Ironia becera, battute fuori posto, quel tono da bullismo camuffato da “ci preoccupiamo per te”.
Io però non voglio rinunciare a questa cosa bella. Perché è bella. Semplice. Pulita. Rispetto da subito.
E quindi: da dove si comincia? Come si entra in questa storia senza farsi massacrare?
Grazie, davvero.
Mi serviva un posto dove scriverlo.
Martina, 23 anni, Bologna