«Quando ritornai nella valle del mio essere, portai questo canto e le penne di nove uccelli dalla regione selvaggia, dalla strada del coyote; e dai sette anni in cui vissi nella Città dell’Uomo portai la mia femminilità, la bambina Ekwerkwe, e la mia amica Ombra»
— Ursula K. Le Guin, Sempre la Valle (1985)
Il passo di Le Guin evoca il viaggio come processo di trasformazione: si parte frammentati e si ritorna con un canto nuovo, una nuova personalità — segni di un’identità ricomposta. Un itinerario interiore, irrepetibile e non delegabile. Oggi l’avventura è in formato tutto compreso: tappe predefinite, paesaggi garantiti, pericoli sterilizzati. Il selvaggio diventa user‑friendly e l’esperienza iniziatica si riduce a un servizio con diritto di rimborso. È questa frizione che attraversa le righe che seguono.
Nel 2020 pubblicavo un post intitolato Magic Bus. Parlavo di quell’autobus sgangherato — il “Bus 142” di Into the Wild — diventato calamita per pellegrini in cerca di un pezzo di avventura prefabbricata. Già allora il paradosso mi colpiva: centinaia di persone volavano fino in Alaska per «fuggire da tutto», salvo ritrovarsi in coda sullo stesso sentiero, con lo smartphone puntato sulla lamiera verde.
La storia si è chiusa nel giugno 2020, quando la Guardia Nazionale dell’Alaska ha sollevato il bus con un elicottero e l’ha depositato in un museo: troppi interventi di soccorso, due morti e una ventina di evacuazioni in dieci anni. (repubblica.it)
Ma il rito collettivo non è scomparso. Si è semplicemente spostato.
Oggi la parola wild è ovunque: dalle etichette dei deodoranti alle campagne Instagram dei grandi comprensori sciistici. Come nota Luca Fontana in un estratto del suo saggio Tornare a esplorare, il termine «selvaggio» è passato dal far paura a diventare uno slogan pubblicitario, appiccicato a foto di laghi color Photoshop e bagni nordici in botte. (linkiesta.it)
«La montagna è diventata un passatempo, svuotata del fascino dell’esplorazione» — L. Fontana
Il processo è lo stesso che ha investito il Bus 142: il simbolo di un tragico percorso intimo e personale viene impacchettato, duplicato, rivenduto in massa. Il tempo lento dell’avventura cede il passo alla fruizione rapida e collettiva.
Per secoli le Alpi sono state officina di sopravvivenza: fieno, pascoli, cave, legna. Oggi le funivie depositano migliaia di sciatori dove un tempo salivano solo pastori. Nei press‑kit si parla di «paradiso incontaminato», ma i tracciati delle piste somigliano a cicatrici e i cannoni sparaneve lavorano anche con +5°C in dicembre.
Questi grandi comprensori sono non‑luoghi1, come li definiva Augé: spazi di transito senza identità, relazioni o memoria, progettati per il consumo rapido e l’oblio. Il turista passa, scia, compra, riparte; la relazione con il territorio si riduce a un ticket RFID nel taschino.
Il paesaggio che Fontana definisce «uno dei più costruiti che esistano» non è un’eccezione: l’intero arco alpino è stato antropizzato fino al midollo. Eppure il marketing outdoor continua a venderlo come Eden vergine.
Il Tour du Mont Blanc è un caso‑scuola. Negli anni ’80, racconta Fontana, i suoi genitori ricordano sentieri silenziosi; nel 2023 il circuito ha registrato circa 50 000 trekkers più un’orda di day‑hikers. Gli hashtag #TMB e #Alps collassano qualunque sfumatura in una corsa al “belvedere certificato”: stessa foto, stesso filtro, stessa didascalia motivazionale.
Quando l’obiettivo diventa “spuntare la lista” – il bus, il bivacco rosso, l’altalena panoramica – l’esperienza si appiattisce. E, paradossalmente, aumenta il rischio di incidenti: ci si avventura senza conoscenza del luogo, affidandosi più a Google Maps che alla lettura del cielo, del tempo atmosferico, dell’ambiente.
Nel mio vecchio post scrivevo che «abbiamo il dovere di cercare il nostro “luogo selvaggio”». Oggi aggiungo: dobbiamo farlo senza pretendere che sia pronto all’uso. E tuttavia possiamo soltanto ridurre l’impatto di questa massificazione, non azzerarlo. Una soluzione definitiva — che non passi per una drastica riduzione demografica — non esiste. E allora:
Insomma, il Bus 142 in un museo, le Dolomiti in un carosello di reels: l’esito è lo stesso, lontananza addomesticata. Ma la natura non è un servizio a buffet. È un incontro, spesso scomodo: pioggia e fango, vento contrario, deviazioni non segnate.
Riconsegnare alla montagna — e a noi stessi — questa quota di incertezza significa de‑turistificare lo sguardo: tornare a esplorare anziché consumare.
La prossima volta che sentirete il richiamo di un “luogo selvaggio” chiedetevi: sto seguendo un copione altrui o sto scrivendo il mio?
Portate con voi una borraccia, una bussola e una cartina, non un hashtag da esibire. E, se potete, lasciate la meta un po’ migliore — o almeno non peggiore — di come l’avete trovata.
Marc Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli outlet, i campi profughi, le sale d’aspetto, gli ascensori eccetera. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o come porta di accesso a un cambiamento (reale o simbolico). Wikipedia ↩